Vedi la foto A 72 anni dice di non essere più interessato a far carriera: «Sono nell’invidiabile condizione di potermi togliere tutti i sassolini che ho nelle scarpe». Il pittore cagliaritano Adolfo Florjs, dal buen retiro di San Leonardo di Siete Fuentes, continua a tenere i riflettori accesi sulla sua città, Cagliari: «Osservarne i cambiamenti mi consente di tratteggiare orizzonti nuovi e inquieti, legati a un tessuto sociale che sta cambiando a un ritmo vorticoso. Senza che nessuno faccia niente per tutelare la nostra identità di sardi».
Non accetta il sospetto che il suo sia un discorso sporcato da un preconcetto razzista: «Sono sempre stato cittadino del mondo, trovandomi a mio agio nel nord Europa come a sud della Sardegna – fa notare – anzi, proprio sulle rive africane del Mediterraneo ho spesso trovato l’umanità e le ambientazioni che hanno ispirato alcuni dei miei quadri più riusciti».
Le lamentazioni nei confronti di Cagliari sono generali, quasi di sistema: «Siamo diventati una città arretrata, senza diritti né organizzazione, senza un’idea di socializzazione – fa notare – una capitale nel Mediterraneo che è così arretrata da non avere nemmeno un bagno pubblico nel suo centro storico, se si fa eccezione per quello presente nel mercato di Santa Chiara. Una città che subisce e non governa la globalizzazione e il suo essere multi-etnica. Abbandona gli spazi e non li organizza, permette ad altre culture ciò che le altre non permettono alla nostra. Per fortuna che i cagliaritani hanno, tradizionalmente, una grande tolleranza».
Tutto questo cosa c’entra con l’arte e le sue manifestazioni? «La salvaguardia dell’identità culturale è alla base di ogni forma d’arte, – protesta Florjs – è normale che in questo disordine sociale anche nel mondo della pittura si siano persi i riferimenti. E vengano fuori dei fenomeni sopravvalutati. Spesso altro non sono che delle provocazioni».
Qualcuno potrebbe tirar fuori il solito discorso della vecchia nomenclatura artistica che vorrebbe perpetrare se stessa, frenando il nuovo che avanza. Ma Florjs blocca il discorso sul nascere: «Da questo punto di vista sostengo quello che da tempo fa l’amministrazione provinciale, che ha scelto di far esporre i giovani talenti, spronandoli a ricercare strade nuove. Loro sono certamente il futuro. Ma non parlatemi dei writers, che sono nemici del bello, o di quelli che vorrebbero cattedrali nel deserto sullo stile del Betile».
Lasciando da parte gli imbrattatori, ci sarebbe anche da distinguere tra provocazioni e nuove forme d’arte. In Sardegna, ad esempio, in questi anni stanno andando di moda i pittori di murales, che vengono chiamati ad abbellire i paesi del centro Sardegna, specie in Planargia: «Niente di nuovo, anche in questo caso. Si tratta di un’arte che è nata in Messico nell’800 e che periodicamente torna in auge. Per quel che mi riguarda, niente in contrario. L’importante è che ci sia mercato. Qualcuno, cioè, disposto a pagare per vedere un’opera d’arte realizzata». A comprare quadri sono soprattutto le istituzioni: «Ma ormai anche quelle devono far quadrare i bilanci – conclude, amaro, Florjs – 30 anni fa, quando bisognava arredare una casa importante, si pensava subito a un bel quadro, per renderla signorile. Ora la esigenze sono cambiate. E la società diventa figlia del tempo: brutta, disordinata, di corsa e poco attenta. Quando chi di dovere se ne renderà conto sarà ormai troppo tardi».
An. M.