“La mia produzione artistica la dedico a tutti i sardi che amano la pittura figurativa e le sue tradizioni”. In questa sottolineatura dello stesso Adolfo Florjs è, in nuce, lo spirito che muove l’artista cagliaritano nel suo iter pittorico. Una piccola frase dunque, ma che racchiude sinteticamente cinquant’anni di pittura (oli, acquarelli, tempere e tecniche miste), tutti svolti nella certezza di produrre opere di buona fattura, misurate, di nessuna ridondanza, di grande afflato poetico. È stato allievo di Dino Fantini, dell’acquarellista Aldo Riso, ma soprattutto del «suo maestro» Reci. Però per temi, assonanze ed atmosfere, ha sempre guardato con ammirazione ad Antonio Corriga, Carmelo Floris, Filippo Figari e Giuseppe Biasi. Parlando di Florjs, il compianto critico Fernando Pilia, teneva a sottolineare: «Ha fissato la luce della sua terra nella luce della sua anima che si è proiettata in tutte le sue soluzioni, grazie ad un istinto esuberante che gli ha stimolato la sua capacità espressiva. Da questo momento – prosegue Pilia – ha preso sviluppo ed ampliamento la violenza cromatica dei suoi dipinti, realizzati con magica perfezione tecnica nei paesaggi, nelle figure, nelle nature morte… e nello spessore del patrimonio civile del passato, riuscendo a scovare segni profondi di suggestione». Concordo con l’amico Fernando Pilia, ed anzi voglio aggiungere che oggi ritraendo la sua terra, i suoi paesaggi, le sue genti, Adolfo Florjs è in grado di affascinarci e di confermarci come l’artista è lontano dai dogmi dell’accademismo, nella sua forte spinta interiore di stabilire un rapporto più veritiero e diretto con l’Isola e la sua gente, scoprendo per loro nuove valenze espressive e simboliche ed a renderceli trasformati in emblemi di un gusto, di una cultura ricca di sensibilità. Nel paesaggio barbaricino, poi, dà il meglio della sua arte e dove ogni elemento appare frutto di un dipingere meditato e significato esplicitando una personale, felice visione, rasserenante della natura.
II paesaggio e la figura sono dunque gli artefici di tutta la sua pittura, il motivo dominante del suo mondo, ed ogni pennellata, ogni tocco di colore, divengono elementi essenziali per una narrazione condotta con acuta analisi ambientale e con una sobria definizione delle robuste strutture compositive. Attraverso l’attenta interpretazione del reale, Adolfo Florjs giunge alla determinazione sensibile del proprio mondo, delle emozioni che prova, nel ripercorrere i luoghi amati della sua Isola e che hanno colpito la sua fantasia creativa. In questa precisa connotazione s’inseriscono le campagne, le spiagge, i silenziosi scorci barbaricini e di città, le nature morte, i pranzi a «sa sarda», i cavalieri di Sedilo, scorci d’interni di case e di chiese, i giocatori di carte, i contadini, le mattanze di tonni, le lavandaie, i «piccioccus de crobi», gli omaggi a Sant’Efisio, il Ghetto degli ebrei a Cagliari e molte processioni, in un’atmosfera d’intimità lontana da ogni contaminazione o influenza della nostra società industriale avanzata. Un dipingere quindi che testimonia come nulla sia lasciato al caso, o peggio alla facile ricostruzione verista, ma il tutto diviene espressione di un momento d’attenta partecipazione alle vicende narrate. Ma i suoi racconti pittorici non si limitano alla Sardegna, infatti, Adolfo Florjs, da buon giramondo, ha fermato, sulla tela e sul foglio, paesaggi e personaggi africani, dell’America del Sud, delle Antille, della Grecia. Da sottolineare il colore, ricco e turgido, che assume, in un contesto sempre misurato e controllato, un valore determinante che Adolfo Florjs, da maestro, domina con molta padronanza, conferendo alle sue composizioni un clima incantato e di gran pathos. Evidenziamo, infine, che chi vuol conoscere tanti aspetti della realtà isolana – soprattutto le giovani generazioni -, inerenti il costume, la vita quotidiana, la cultura e le tradizioni popolari, in riferimento ad un arco di tempo compreso tra prima della guerra e gli anni Cinquanta/Sessanta, trova nelle sue pagine pittoriche riflessioni ed attente descrizioni, mai banalmente documentarie, ma con l’intimo intento e sforzo di farci riscoprire una Sardegna che, in gran parte, non c’è più.
Paolo Pais